Il giovane Holden_Jerome David Salinger

C’è un periodo nella vita di molti, come ci fu nella mia, in cui una voce confidenziale, che ci racconta i propri drammi e le proprie frustrazioni, si rivela veramente in grado di sollevarci, grazie soprattutto alla sua capacità di non farci sentire più soli nella sventura. Quel periodo è spesso l’adolescenza, ma per qualcuno, me compreso, sotto l’apparenza di un adulto si agita ancora la pura e spontanea irrequietezza di un bambino, che non ha mai accettato le disillusioni della vita adulta, e pertanto ancora oggi ricorre alle vecchie terapie spirituali, scoperte da ragazzo, della musica e della letteratura.

È per questo che oggi vorrei presentarvi, se già non lo conoscete o se lo avete perso di vista, il mio amico Holden.

Un racconto strettamente confidenziale

Nel romanzo “Il giovane Holden“, forzata restituzione del titolo originale inglese “The Catcher in the Rye“, “l’acchiappatore nella segale”, dal verso storpiato di una canzone che il protagonista orecchia per strada, l’autore Jerome David Salinger approccia il lettore con una confessione a cuore aperto del protagonista, il sedicenne Holden Caulfield. L’idioma giovanilistico, in cui il ragazzo si racconta in prima persona, si colloca nel solco tracciato dalla grande narrativa americana dei racconti-confessione (da Le avventure di Huckleberry Finn di Twain ai racconti di Bukowski), in cui la stessa trascuratezza gergale rispecchia i limiti e lo smarrimento di chi si rivolge a noi. Il nostro testo narra ciò che a Holden è accaduto durante un fine settimana prossimo al Natale. Ma quei concitati momenti che precedettero e seguirono la sua fuga dal college, da cui era venuto a sapere di essere stato espulso proprio in occasione delle vacanze natalizie, non sono contraddistinti da particolari colpi di scena, ma da un solitario girovagare per la sua New York, in cui si susseguono incontri perlopiù squallidi e mortificanti, con la sola eccezione della complicità che il ragazzo ritrova con la sorella minore.

Un romanzo “mitico” fatto di piccole rivelazioni

Di questo romanzo, pubblicato negli USA nel 1951 e venduto a tutt’oggi in circa 65 milioni di copie[1] tradotte nelle maggiori lingue del mondo, tralascerei di approfondire l’aura mitica, che gli deriva dalla vita anacoretica del suo autore o dall’esser stato rinvenuto, quell’otto dicembre di trentacinque anni fa, nella mano dell’assassino di John Lennon mentre l’altra impugnava ancora la pistola fumante. La straordinarietà del testo sta, a mio avviso, nelle folgoranti rivelazioni che possiamo carpire tra gli aspetti apparentemente banali della narrazione di un ragazzo.

Il racconto delle “cose da matti” che gli capitarono “verso Natale” inizia con la solitudine di Holden, ritiratosi su di una collina prospiciente il campo da rugby del suo college, presso il quale sono accorsi tutti gli studenti per partecipare o assistere alla partita. Ma a lui non interessa partecipare; sa che verrà espulso dalla scuola, e quella mattina ne ha già combinata una delle sue, dimenticando nel vagone della metropolitana di New York, che doveva condurlo con la squadra di scherma a disputare un torneo, i fioretti dell’intera brigata. Quel momento però è per lui un importante saluto rivolto all’ennesimo periodo della vita che se ne va: “Se me ne restavo lì era perché cercavo di provare il senso di una specie di addio […] quando lascio un posto mi piace saperlo, che lo sto lasciando. Se no, ti senti ancora peggio.”.

Nella visita seguente al professor Spencer, costretto a casa dall’influenza e desideroso di salutare il ragazzo di cui conosce l’espulsione, Holden riesce a involarsi da un’atmosfera spiacevole ponendosi, tra sé e sé, un interrogativo che ricorrerà più volte nel racconto: dove vanno le anitre che vivono nel laghetto di Central Park di New York quando questo, durante l’inverno, si congela? La domanda verrà poi rivolta dal giovane a un paio di tassisti che lo scarrozzeranno per i quartieri di New York, senza che essi la prendano sul serio, anzi quasi infastiditi da una domanda che appare loro sciocca. Ma il mondo, anche nei suoi aspetti più ordinari e ignorati, riserva oasi di stupore solo per chi, come Holden, è assillato da fanciullesca curiosità.

Dopo aver incontrato ed essersi scontrato con alcuni dei suoi compagni d’istituto, per i quali nutre un contrastato sentimento di odio, ammirazione e pietà, Holden decide furtivamente di fuggire durante la notte dallo stabile scolastico in cui alloggia e di trascorrere vagabondando per New York i tre giorni che ancora mancano alla data in cui la sua famiglia lo attende a casa. Essa è composta dai genitori, il fratello maggiore D.B. che ha fatto fortuna scrivendo sceneggiature a Hollywood, il ricordo del fratello minore Allie morto all’età di tredici anni di leucemia, e la piccola sorellina Phoebe di dieci anni, tenero sprazzo di commovente candore in un mondo di opportunisti, che Holden vorrebbe ora tanto rivedere prima che tutti sappiano delle sue più recenti malefatte.

Nelle sue prima notte brava newyorkese, in cui finisce anche per essere raggirato e rapinato da una prostituta di un albergo in cui soggiorna, senza consumare il rapporto, Holden ci confessa la sua verginità sessuale; non riconducibile all’assenza di occasioni, ma alla sua umanissima premura per le ragazze: “Il fatto è che quando state proprio lì lì per farlo con una ragazza […] quella continua a dirvi tutto il tempo di smettere. Il mio guaio è che smetto. C’è tanti che non smettono mica. Ma è più forte di me. Non capite mai se quelle vogliono veramente che smettiate […] o se vi dicono di smettere solo perché se voi continuate la colpa è vostra e non loro. […] Dopo che le ho riportate a casa mi mordo sempre le mani, ma continuo a smettere ogni volta.”. Più tardi, quando bisognoso di parlare con qualcuno egli combina un incontro con il vecchio compagno di scuola Carl Luce, che si dà arie da casanova, gli confesserà: “Sai qual è il mio guaio? Con una ragazza, se non è una che mi piace proprio da matto, non mi riesce a diventare sessuale: dico, veramente sessuale“.

Intenzionato a incontrare Phoebe, Holden pensa di poterla trovare di domenica mattina al Museo di Storia Naturale. Sulla scia dei momenti vissuti che, anche se spiacevoli, lasciano nel nostro amico l’amarezza di ciò che va perduto per sempre, il Museo è per lui un monolite che resiste alla forza del tempo, al quale ci si può aggrappare ogni volta, avvertendo che a cambiare siamo noi: “Potevi andarci centomila volte, e quell’esquimese aveva sempre appena finito di prendere quei due pesci, gli uccelli stavano ancora andando verso il sud, i cervi stavano ancora abbeverandosi a quella fonte, con le loro belle corna e le belle, esili zampe, e quella squaw col petto nudo stava ancora tessendo la stessa coperta. Nessuno era mai diverso. L’unico a essere diverso eri tu.”. 

Verso la fine del racconto, Holden riesce a incontrare Phoebe, intrufolandosi in casa sua mentre i genitori sono usciti. La bimba gli butta le braccia al collo e ripone nel suo comodino i frammenti di un disco che Holden le porge, avendolo comprato per regalarglielo, ma che nel frattempo gli è caduto andando in mille pezzi. Ella non tarda però a capire che il fratello si è fatto cacciare dall’istituto che frequentava e sembra non volergli più parlare per l’arrabbiatura. A seguito della sprezzante descrizione che Holden fa della scuola che lo ha appena cacciato, la piccola Phoebe torna a rivolgergli la parola, chiedendogli se, tra la moltitudine delle cose esistenti, ce ne sia almeno una che gli piaccia e che non odii. In quel momento Holden è frastornato e nella mente gli scorrono ricordi vicini e lontani, senza tuttavia riuscire a rispondere alla sorella. Dopo averci rimuginato sopra un po’ abbozza una risposta: gli piacciono Allie, il fratello morto, e lo stare là seduto a parlare con lei. Al controbattere della piccola che quella non è una “vera” cosa, Holden le risponde che quella è una “vera” cosa eccome! “La gente non crede mai che una cosa sia una vera cosa“. Alla fine, ispirato dai versi storpiati di una canzone che ha ascoltato cantare per strada, Holden esclama di sapere cosa gli piacerebbe fare: starsene in piedi sull’orlo di un dirupo che costeggia un immenso campo di segale sul quale giocano una miriade di ragazzini e prendere al volo tutti quelli che rischiano di cadere per sbadataggine. Dunque, fare “l’acchiappatore nella segale”, the Catcher in the Rye appunto, come l’originale titolo del romanzo.

Dopo l’ennesima delusione, causata dall’atteggiamento sessualmente ambiguo di un vecchio professore offertosi di ospitarlo per la notte, Holden medita una nuova fuga, ma stavolta definitiva. Prima di partire risoluto verso l’Ovest in autostop, non può rinunciare a un ultimo saluto a Phoebe, alla quale, oltretutto, deve restituire del denaro. Pertanto, le fa pervenire un messaggio in cui la informa della sua drastica decisione e le dà appuntamento per un addio al vicino Museo d’Arte. Phoebe ritarda e Holden inizia a sospettare che la bidella da lui incaricata di consegnare il biglietto a sua sorella se ne sia disfatta. Ma quando se la vede arrivare, Holden resta sbalordito: la piccola si sta faticosamente trascinando appresso, nell’attraversare la quinta avenue, una grossa valigia. Ebbene, Phoebe gli confessa di voler partire con lui! I due fratelli finiscono per dissuadersi a vicenda dai loro propositi; una giostra e la pioggia scrosciante fanno loro da sfondo. È tempo di tornare a casa e di procrastinare la fuga. Ma come tutti gli straordinari momenti che si vivono con l’incoscienza dei ragazzi, anche quella giostra con su Phoebe e la febbricitante felicità di un Holden ormai influenzato sono una fuggevole scheggia di vita destinata a perdersi nostalgicamente nel ricordo: “Dio, peccato che non c’eravate anche voi.”.

La voglia di spaccare la testa ai disseminatori di “ca…” e gli scrittori come amici

C’è una metafora nel libro che mi pare sia significativa nell’aiutarci a distinguere le persone tra “holdeniane” e “schife”. Quando si reca nella scuola della sorella per consegnarle il messaggio, Holden vede una cosa che gli fa “perdere le staffe“: “Qualcuno aveva scritto ‘ca…’ sul muro“. Così pensa che Phoebe e le sue amiche si sarebbero chieste cosa significasse e che qualche ragazzino sporcaccione lo avrebbe loro spiegato a suo modo… Dopo aver cancellato quella sconcezza, scendendo una scala, egli vede un altro “ca…” stagliarsi sul muro e cerca di far sparire anche quello, ma, essendo stato inciso con un temperino, è tristemente destinato a un’oscenità durevole. Le brutture che gli uomini lasciano nel mondo sono impossibili da estirpare tutte. “Anche ad avere un milione d’anni a disposizione, uno non riuscirebbe a cancellare nemmeno la metà dei ‘ca…’ lasciati come firma nel mondo. […] Non puoi mai trovare un posto bello e tranquillo, perché non esiste. Puoi credere che esista, ma quando ci arrivi, il momento che volti gli occhi, viene qualcuno di soppiatto e scrive ‘ca…’ proprio sotto il tuo naso. Provateci, una volta. Credo perfino che se un giorno morirò e mi ficcheranno in un cimitero, e io avrò una tomba e tutto quanto, sopra ci sarà scritto ‘Holden Caulfield’ e in che anno sono nato e in che anno sono morto, e poi, sotto, un bel ‘ca…’. Sono pronto a giurarci.“.  

Quando il racconto del nostro amico Holden si conclude, si ha la percezione di essergli stati a fianco sin dall’inizio, di aver vissuto come lui quei momenti al contempo comuni e straordinari; fino al punto di sentire, come lui, la mancanza di tutti quei tipi di cui ci ha parlato, prepotenti e sopraffattori compresi. “Non raccontate mai niente a nessuno. Se lo fate, finisce che sentite la mancanza di tutti.” Queste le frasi conclusive che esprimono un sentimento che noi, con Holden, forse condividiamo anche col suo autore. Infatti, ci ricorda Holden, i libri che lo lasciano davvero senza fiato sono quelli che “quando li hai finiti di leggere e tutto quel che segue vorresti che l’autore fosse un tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira.“. Peccato, per quanto abbia attentamente scorso il volume, né sul frontespizio, né in prima, seconda, terza o quarta di copertina, né in alcun’altra pagina del testo, Salinger ci ha lasciato il suo numero.

[1] Dato fornito dalla libreria londinese Foyles